Caffè caffè caffè caldo caffè…

Fare l’Università a Salerno per me voleva dire la pizza premio a Napoli dopo ogni esame. Era un rito che compivo in solitudine. Dopo la disavventura di un 26, sprovvedutamente accettato, giurai che avrei rifiutato tutti i voti sotto il 30. E così fu. Solo 30 per una vera laurea gloriosa! Al max 30 e lode… Per cui fare un esame era una prova di forza che esigeva un premio. Il premio era la mia passione: una pizza napoletana a Napoli.
A Napoli Centrale, tutte le volte che passavo c’era la massa orientale degli ambulanti che vendevano ogni cosa. Allora i treni non erano sigillati come acquari tropicali a Stoccolma e la gente abbassava il finestrino e comprava di tutto da quelli che oggi chiameremmo abusivi.
Un soggetto da mitologia plebea era un signore di età indefinibile, neri capelli corvini tirati meticolosamente all’indietro come Totò, cesto con vivande e occhiali della mutua di quella indimenticabile plasticaccia nera da postumi del boom economico con lenti fondo di bottiglia. Il suo grido di richiamo era: “Caffè caffè, caffè caldo caffè”. Lo ripeteva come un mantra, con una voce potente e mediosa, un po’ come un megafono. Avrei voluto fotografarlo ma non ci riuscii mai. Mi pareva come una mancanza di rispetto. Un farlo diventare souvenir mentre quello, credo, che con questo cercasse solo il pane quotidiano. Lo vidi per anni, per oltre un decennio, forse molto di più. Tutte le volte che passavo da Napoli, in treno, a tutte le ore lui c’era. Non comprai mai nulla ma lo osservavo da quando si avvicinava sino a quando non si perdeva lungo il binario fra la folla.
“Caffè caffè, caffè caldo caffè”…
Una volta da Napoli ci passai in cuccetta e il suo mantra mi fece alzare dal letto. Mi entrava in testa quel mantra come la visione tragica, proletaria e surreale dello scotch sulla stanghetta rotta dei suoi occhiali della mutua.
Eppure quell’uomo era sempre al lavoro. A tutte le ore. Cosa non si fa per sbarcare un magro lunario…
“Caffè caffè, caffè caldo caffè”…
Quella notte non riuscii a prendere sonno e mi misi ad analizzare in mente quel mantra.
“Caffè caffè, caffè caldo caffè”…
Presi l’agenda e iniziai a segnare appunti di quella che allora mi parve un’analisi metrica e che ancora mi ricordo.
Dunque:
Caf/fè caf/fè caf/fè cal/do caf/fè
Sarà un pentametro giambico?Caffè-Napoletano-Ricetta-Originale-1
No, non è un decasillabo ma un endecasillabo tronco. L’accento sull’ultima parla chiaro in metrica. In pratica è come se valesse due. Endecasillabo, sì endecasillabo. Il verso più usato dalla poesia italiana colta e popolare.
E fin qui ok.
Molto giambico è l’andamento delle prime quattro sillabe con quel serrato caffè caffè…
Poi vediamo gli ictus: seconda, quarta, settima, decima. Sì funziona… ma non ci arrivai subito perché l’accento di caffè mi disturbava. Poi mi soccorse quel poco di metrica fatta al mio Liceo Classico:
L’accento tonico impedisce di considerare ictus l’accento di caffè sulla sesta. In nessun verso si potrebbero collocare due ictus uno vicino all’altro. Allora ecco che l’ictus va su càldo. Sì, ecco… deve essere così. È proprio in questo preziosismo metrico/ritmico che si annida il fascino musicale di questo verso/mantra
Ictus sulla seconda, sulla quarta, sulle settima e sulla decima.
Caffè caffè caffè cAldo caffè
Caffè caffè caffè cAldo caffè
Caffè caffè caffè cAldo caffè
Dopo un poco, steso nella cuccetta, l’ipnosi fu totale e mi cadde la penna di mano. Mi risvegliai al mattino presto, il treno era già verso Lodi.