Proemio di un poema inesistente

Proemio di un poema inesistente
(con tenui rumori urbani in sottofondo)
Ettore Castagna: Testo, Voce, Kythara
Endecasillabi, settenari, quinari, rime del tutto casuali
Sarò sincero:
Non ce la posso fare.
Chi prenderà la croce dell’ascolto?
E chi della lettura?
L’autore ha il suo progetto nella mente.
Chi canta canta
e poi chi sente sente.
Ha la mia musa il muso
nel bel meriggio ombroso
Di un buon viaggio carnal
la bussola vorrebbe
e non intende.
Ha la mia musa il muso e più non sente.
Cantare, cantare, perché? Per cosa?
Non più si canta.
Non più, non più la rosa né la luna
il cammello impedito nella cruna.
Il gatto innamorato non attira
la critica, la logica infernale
di quella gran carretta digitale
che inghiotte il mondo e tutto il suo baccano
fino allo scuro.
Manco dopo il tramonto trovi pace,
il mondo è una metafora interdetta
che non trasporta più significato
ma se vorrai un gelato
pure alle tre di notte
lo scambierai per una monetina
astutamente messa
nel cuore di metallo e di cartone
d’un elettromeccanico Gerione.
Guardando bene ti scorgo nel branco
quando annebbiato e stanco, caro lettor,
cerchi d’allontanarti
verso gl’ippocastani
che fanno frutti amari da mangiare
lungo quel lungo viale.
Cosa rimpiangi?
La meraviglia e l’aureo cortile
d’un autorevole pensier senile?
O l’acume che non è mai abbastanza
delle sinapsi
in giovanil baldanza?
Il disperare certe volte annulla
e aiuta con l’oblio meglio del vino.
Il disperare è una forma suprema
d’ogni progetto ch’abbia una valenza.
Che uno pensa e pensa e pensa
ma poi hai dimenticato l’esca
e lancia dentro l’acqua nuda lenza.
Il bello del sognare
tramonta lungo l’argine. Si perde
quel sentir poco preciso
d’una canzon che passeggiando avverti.
Si mostra assai lontana e non capisci
nelle parole. Che nient’altro conta.
Contano le parole, contano ancor
contano sempre.
La vita assai ritarda,
l’amor non ci riguarda.
Non so tante canzoni e canto come
mi fece capace la mia gola forse.
Canto quel gran piacer ch’è nel racconto.
Canto mondi scomparsi, altri mai visti
nei sogni disprezzati degli artisti
dentro periferie del mondo sperso
nell’universo.
Versi occultati all’occhio digitale
nascosti nell’ascella al zappatore
avvolti dentro al fischio del vapore
oppur dentro del mirto, del lentisco
del giovin futuribile assertore
di nuove civiltà, di già passate
nella discarica dimenticate,
di quell’erba di cui non t’eri accorta
perché la nonna è morta.
E chi se lo ricorda più come si chiama?
Il fiore ti dicevo
e non la nonna.
Canto quasi contento della luce
fioca, fioca, sfuggente
con la soddisfazione, col sorriso
dell’ombra che trascorre.
Se la colomba osserva, non ci crede
che il nero passi e lesto si trasformi,
segni la pietra lungo il marciapiede
e poi si perda ancora.
Dove va l’ombra? Tu lo sai? E come?
Sotto la pietra nutre lo scorpione
e, oltre, inghiotte sempre casualmente
l’appunto caduto dalla tasca
perché hai dura cotenna
e insisti con gli appunti scritti a penna.
Eppure io vedo sole a sufficienza
Io vedo sole che genera l’ombra.
Il sole ha forza indomita se vuole.
Ancor non ho deciso le intenzioni.
Lanciarmi in un proemio,
è un’apertura dotta
ma pasta scotta e amido assai incerto
per il lettore esperto.
Faccio una cosa vecchia come fosse
quella più nuova al mondo.
Io dalla rima sciolgo ogni parola
e faccio come non avesse rima.
Un’opera garbata disegnare.
Un’opera garbata voglio fare.
Qualcosa che richieda
finzione e amor in equilibrio sghembo.
Ché l’equilibrio trovalo al mercato
dietro un codice a barre
Com’è nient’altro nella vita amare,
tanto bello cercare
in prosa, in rima,
a monte, a china
frivoli fatti e disperati e ameni,
tragedie seminate nella roccia.
E non c’è goccia
che le faccia trascendere in un seme
di quei semplici fiori,
che sono una fatica all’oggidì
pure agli insetti, di trovarli vivi.
Le angosce, le paure senza freni
e senza luminanza
a un cuor selvaggio sono come il muro.
Sarò sincero:
Non ce la posso fare.
Chi prenderà la croce dell’ascolto?
E chi della lettura?
L’autore ha il suo progetto nella mente.
Chi canta canta
e poi chi sente sente.
Ha la mia musa il muso
nel bel meriggio ombroso
Di un buon viaggio carnal
la bussola vorrebbe
e non intende.
Ha la mia musa il muso e più non sente.
Ettore Castagna © – 11 Aprile 2021