Fra un’autorecensione piuttosto attempata e un amarcord

E. Castagna, M. Cognetti, W. Torchia, Distilleria all’Arancio, La foglia di ficus, Catanzaro, Gennaio 1979… Cento, forse centocinquanta copie oramai introvabili

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Doveva essere l’autunno del 1978 ed era una piccola città, Catanzaro.

Vale la pensa continuare a leggere dopo un incipit di questo genere? Io penso di no.

Ma, magari, non avete nulla da fare in questo momento e potete arrivare in fondo.

Fate un piccolo sforzo, eccezionalmente per questa volta.

Oppure, in fondo, no. Non vale la pena.

Forse a metà.

Vediamo.

Walter ci disse: «Dobbiamo fare un libro e lo voglio fare con voi e qualche altro amico… Magari Peppino Scarfone e Romano Pitaro. Il titolo non lo so di preciso. Lo deciderà l’editore. Un libro di poesie e poi un unico raccontone, dall’inizio alla fine. Una cosa che fa da cucitura, che tiene insieme tutto»

«Eh, sì… l’anello narrativo… come dice il professore Voci quando non parla di Dante… Cioè mai… Parla di Dante tutti i giorni… Come quando Castagna gli ha detto che Dante è un servo dell’imperialismo… No, Castà? Non ci dicisti accussì? E lui gli ha detto mezzo indignato “Tu sei stupido ma… banale” Ah, ah…No, Casta’? Ti futtìu Voci, Casta’! Ah, ah»

Walter era imperterrito, sorrideva e continuava a dire.

«È una bella storia. Tre ragazzi che siamo noi vogliono diventare famosi come poeti. Alla fine pensano che un gesto eclatante come il suicidio li può rendere immortali. Però alla fine rinunciano anche a questo perché sarebbe tutto troppo serio… Bello, no? Divertente, no?»

Io e Maurizio fissammo Walter per qualche attimo in silenzio. «Tu si’ pacciu» commentò Maurizio. Era ottobre 1978 dappertutto a Catanzaro e lo era pure davanti al bar davanti al Liceo Classico Galluppi. Mi venne di aggredire allegramente Maurizio, lasciando Walter a squadrarci quasi incazzato… Guarda questi due che non si può fare un mezzo discorso serio.

«Ha ragione Cognetti…Si avvicina Natale… Arriva Cognù Bambino… Cognù… Gnognò…Gnognò…» questo aggiunsi inseguendo Cognetti che brandiva contro di me l’ombrello aperto in quella fresca giornata di sole autunnale. Scansava i miei pizzicotti e la mia coglionetta: «Gnognò… Gnognò… E secondo te dovrei scrivere un libro di poesie con Cognù Bambino… Walter, non è possibile… Ah, ah…»

«Ettorù… siamo a ottobre, ma mi volete stare a sentire o no?» Walter ebbe pazienza quel giorno.

Era così perché era lo stile, era il momento, eravamo demenziali perché eravamo così. Io dico che lo saremmo stati a prescindere dal momento, dalla politica, dalla rivoluzione. Una generazione intera era così. La creatività al potere. Sì, al potere… Sta’ friscu.

Ci davamo arie da poeti in quegli ultimi anni di liceo. Io giravo con un basco blu messo un po’ di traverso. Un Ungaretti magro e occhialuto. Maurizio con una bombetta scassata di suo fratello per la quale rischiammo di essere presi a cazzotti al mercato ortofrutticolo di Belfast, l’anno dopo. Chi è che va a spasso in un mercato cattolico irlandese con il simbolo degli inglesi invasori in testa? Due immaginari poeti calabresi.

Scrivevamo poesie e racconti ed era un specie di allegra tenzone artistica fra qualcuno che poi tentò la via dello scrittore e qualcun altro no: Maurizio Cognetti, Walter Torchia, Benedetto Sestito, Peppino Scarfone, Renato Nisticò, Romano Pitaro.

Non era raro che ci si trovasse la sera, ai Giardinetti di San Leonardo.

«Lo sai… ho scritto un racconto…»

«Io invece una poesia»

«Eddai leggiamo… certo che batti a macchina che fai pena, è tutto pieno di cv».

Mica cv vuol dire Curriculum Vitae.

Che ne sapete voi che scrivete solo in ambiente digitale del cv? Il vostro device vi corregge l’ortografia. Magari a modo suo. ma la corregge.

Quando si scriveva a macchina, magari con la lettera 32 dell’Olivetti, il risultato era che spesso battevi la c invece della v e viceversa. Allora incazzato ci ribattevi sopra la v o la c.

I fogli si riempivano di questi sgrancichi. Era fastidioso il cv.

Passarono un paio di mesi febbrili, ognuno a scegliere le sue poesie, ognuno ad ascoltare quello che l’altro aveva da scrivere. E poi ascoltare il racconto di Walter, la cucitura, l’anello narrativo…

Non so che valore avessero quei testi, tutte quelle parole a invadere carta su carta. Per noi però erano importanti. Erano i nostri diciottanni che sfilavano sul nastro nero della macchina da scrivere.

Un numero indeterminabile di amici ci ruotava attorno in serate a base del vino scadente delle osterie catanzaresi, rape e fagioli da Reduci e Combattenti, morseddu da Pepè u Russu. Nel modo leggero e scanzonato di una banda di liceali si compose tutta l’avventura nei suoi dettagli. Avremmo venduto poi le copie secondo lo stile militante dell’epoca… Fuori il Classico, fuori lo Scientifico, amico per amico, magari casa per casa.

Fu tutto molto letterario forse perché pareva candidarsi a non esserlo affatto,forse per la diversità delle intenzioni che c’erano dentro: la cavalleresca generosità del nostro editore, la goliardia di Maurizio, il sentirsi un po’ letterato di Walter, il gusto per il surreale del quale sono invasato io stesso da tenera età. Ma forse anche c’era la troppa gioventù, un’ingenuità e una verginità di provinciali.

Il libro uscì ufficialmente a gennaio del 1979 ma in realtà verso aprile o maggio. Era in 132 pagine per duemila lire. L’editore era una persona non un ufficio e nemmeno un consiglio di amministrazione e si chiamava Benedetto Sestito. Pagò ogni cosa di tasca sua. In copertina e nei crediti finali l’editore si chiama “la foglia di ficus”, già “Catene Mentali” . Non so quanti libri abbia pubblicato ma credo tutte produzioni romantiche e ciclostilate come la nostra. Forse furono cento copie, forse centocinquanta. Non mi ricordo più. Qalche  altra cosa me la ricordo ma a modo mio. Mi ricordo che fu battuto a macchina e ciclostilato pagina per pagina dal paziente editore medesimo dentro la sede di Lotta Continua. Poi ci mettemmo tutti a fascicolare le copie sul grande tavolo della casa di Benedetto. Walter mi dice che invece si fece tutto alla parrocchia di Don Biagio che aveva una macchina elettrica e un ciclostile  degno. Sono entrambe due versioni epiche e possiamo tenerle tutt’e due.

Per dare dignità editoriale all’opera, Benedetto portò tutte le copie in tipografia e il libro venne cucito, incollato, rifilato e ricevette una degna copertina con un disegno di Klee sulla prima.

Sulla quarta troneggiava, in lettere capitali, una sinossi assolutamente degna dell’avventurosa operazione:

“Ventuno scene, due dibattiti, trentaquattro poesie e due in forma di prosa, venti intermezzi e sei interventi celesti: Una carrellata di situazioni, sensazioni, possibilità, dolcezze, spiragli e buchi neri del grande mondo qualsiasi di un pugno di afflitti incalliti, tipi comuni senza comunità, assolutamente pieni di sé e della propria sacrosanta gloriosa unicità, gentili e bradi tali e quali i loro nonni, forse. Come tutti. Votate e fate votare”.

Ne conservo una copia che ha sopravvissuto ai miei innumerevoli traslochi.

Quando mi serve ridere, la leggo e rido.