Sulla Gazzetta dello Sport!
Oramai c’è il serio rischio che vi divento famoso…
Palanca oltre il mito, Tredici gol dalla bandierina di Ettore Castagna.
Consigliato da Maria Teresa D’Agostino su “Fuorigioco – Gazzetta dello Sport” – 21.01.2019
Oramai c’è il serio rischio che vi divento famoso…
Palanca oltre il mito, Tredici gol dalla bandierina di Ettore Castagna.
Consigliato da Maria Teresa D’Agostino su “Fuorigioco – Gazzetta dello Sport” – 21.01.2019
Ringrazio Cinzia Ficco su Democratica.it https://www.democratica.com/…/palanca-intervista-ettore-ca…/
Pagine rapinose 🙂
Così nel lontano (si fa per dire) Trentino parlano di me… anzi del mio romanzo…
Grazie a Carlo Martinelli
Onoratissimo dell’attenzione del Corriere della Sera su Tredici gol dalla bandierina con un articolo di Giancristiano Desiderio.
È sempre una grande soddisfazione un passaggio su un quotidiano nazionale. L’articolo mette però molto in luce solo l’aspetto calcistico del romanzo. Che non è l’unico.
Aspettiamo ora la recensione del New York Times per gli altri lati da scoprire del romanzo medesimo:-)
Ci avrei tenuto moltissimo al reading/concerto di Palomonte (Sa) del 4 gennaio ma non si è potuto fare per l’emergenza neve.
La carica simbolica per me era molto grande perché tornavo a Palomonte dopo trentotto anni. Nel 1980 vi ero stato come animatore-musicista poco dopo il terremoto.
Abbiamo potuto fare solo un passaggio in radio ma poi, con l’amico Simone Valitutto, ci siamo dovuti arrendere.
Ci riproveremo spero in primavera.
Nel frattempo ringrazio la stampa (Il Mattino, La Repubblica, Radio MPA di Palomonte ) che ha voluto onorare alla grande questo appuntamento rimasto, purtroppo, in sospeso.
Felice Accame
A proposito di Tredici gol dalla bandierina di Ettore Castagna
Il gioco del calcio funge da motore metaforico negli ambiti più vari e molteplici. Ormai in molte circostanze della nostra vita siamo giudicati in “fuorigioco”, spesso siamo colti in “contropiede”, subiamo un “calcio di rigore” o ci viene sbandierato un “cartellino giallo” se non addirittura “rosso” – senza contare le occasioni in cui, non sapendo bene cosa dire, in un “primo tempo” “passiamo la palla” potendo contare su di un “secondo tempo”. Più recentemente, un decreto legge – e qui ci siamo – veniva considerato una “palla buttata in corner”, volendo dire che il guaio risolto non era affatto ma soltanto rimandato – come di quel goal che è nell’aria e, prima o poi, deve arrivare e arriverà. Storia alla mano, Ettore Castagna seleziona dunque la bandierina del calcio d’angolo come metafora di una “difficoltà estrema”, di un “caso limite” nell’escogitare soluzioni – un caso di abilità balistica fuori dell’ordinario. Per capirne il senso occorre un minimo di cognizioni euclidee: la porta di un campo da calcio misura in lunghezza 7 metri e 32 centimetri ed è alta 2 e 24 centimetri (il perché di queste frattaglie è da ricondurre all’interpretazione delle misure anglosassoni originarie); per conseguire lo scopo del gioco occorre scagliarci dentro il pallone ed è ovvio che la posizione migliore per poterlo fare – la posizione in cui la superficie della porta è la più ampia possibile – è quella centrale – più a lato è il punto da cui calci e più la porta si restringe – e la linea di fondo – quella che delimita il campo e, al contempo, definisce la soglia d’ingresso della porta medesima – costituisce il massimo della restrizione. Conclusione: se il pallone potesse viaggiare soltanto in linea retta, calciato dalla linea di fondo non potrebbe in alcun caso entrare in porta. Ma il pallone non viaggia soltanto in linea retta – e la linea retta stessa peraltro è una finzione epistemologica, un modello ideale – e si dà il caso che la bandierina del calcio d’angolo sia situata esattamente sulla linea di fondo. Ad una certa distanza, peraltro – in considerazione del fatto che la porta è situata al centro della larghezza del campo, una larghezza che è tollerata per un minimo di 45 metri e per un massimo di 90 metri. Calciare da quella posizione e da quella distanza, pertanto, anche a prescindere dal fatto che la porta è protetta da un portiere, e riuscire a far entrare il pallone in rete non è impresa facile per nessuno. Neanche per un calciatore di professione. Occorrono doti balistiche notevoli e, presumibilmente, piede calciante acconcio. Li aveva un certo Palanca.
Mi sono dilungato. E, d’altronde, per risalire al significato metaforico di un titolo – come Tredici gol dalla bandierina, titolo che designa un romanzo di Ettore Castagna (Rubbettino 2018) -, era il minimo indispensabile. Come base. Ora arriva il vertice.
Dal 1974 al 1981, Massimo Palanca, ala sinistra del Catanzaro – e il nome della squadra, come il nome di una città particolarmente ventosa, qui, non è privo di significato – segna tredici gol direttamente su calcio d’angolo e questa sequenza viene ad essere assunta come la scansione dei momenti di formazione ideologica del protagonista di una narrazione che viene condivisa da quella che, volendo e sapendo di esagerare, potrebbe essere designata come “un’intera generazione”.
Castagna non è scrittore da scorciatoie accomodanti – non lo è per le idee che frullano in testa dei suoi protagonisti, non lo è per il bagno di storia patria in cui sguazza e non lo è per le soluzioni espressive con cui racconta tutto ciò.
Il flusso sintattico della sua scrittura asseconda i ritmi di un pensiero-linguaggio mai disgiunto dall’emotivo. Correlazioni intere, a volte, risolte in grumi morfemici – nomi-verbi, nomi-aggettivi, verbi-nomi, aggettivi-nomi e via agglutinando – e, spesso, in concordanze contraddette – soggetti singoli chiamati a reggere verbi al plurale, per esempio. Confinarlo al parlato – questo linguaggio .- è forse riduttivo, perché la grana della voce, di concerto all’assunto narrativo, tradisce gioventù e prorompente dimestichezza nonché la rinuncia alle mediazioni letterarie. Come già con il precedente, Del sangue e del vino (Rubbettino 2016), Castagna va dunque ad inscriversi in quella letteratura poco istituzionale – e poco consumistica – in cui linguaggio e riflessione sul linguaggio diventano tutt’uno spostandosi gradualmente fino a situarsi nel versante della critica di una società che – consumistica, e consumistica tanto – sul linguaggio non riflette affatto mentre ne subisce passivamente la logica che lo governa.
Felice Accame (Varese, 1945)è un saggista italiano. Allievo e per anni stretto collaboratore di Silvio Ceccato, al cui pensiero ha apportato alcune critiche, si è dedicato al recupero della nozione di “metodologia operativa” ed alla ricostruzione della genealogia della Scuola Operativa Italiana. L’opera più organica al riguardo è La funzione ideologica delle teorie della conoscenza (2002), in cui viene anche ricostruita ed analizzata la critica della filosofia presente nel pensiero dei movimenti oppositivi dalla Rivoluzione Francese in avanti. È docente di teoria della comunicazione presso il Centro tecnico della FIGC di Coverciano, professione con cui coniuga la propria formazione intellettuale ad un vivo interesse per lo sport. È presidente della Società di Cultura Metodologico-Operativa. Scrive regolarmente su A/Rivista Anarchica. Insieme al sodale Carlo Oliva (1943-2012) ha condotto per oltre 20 anni la rubrica La caccia, caccia all’ideologico quotidiano su Radio Popolare.
Avd Alvear 1690
El taximetro dice pesos 47,19
Alejandro, come stai? Sono diciott’anni che non ci vediamo. In questi casi si dice che sembra ieri. Diciamolo anche noi. Alessandro sembra ieri ma ieri non è.
Le nostre ombre impressionano l’asfalto.
Ti presento i miei tre fratelli Olimpio, Gioacchino e Domenico. Il fratello quattro è Eugenio ma arriva con un altro taxi.
No cabe. ’On trasa. Meglio niente storie con la polìcia argentina.
Alejandro come stai? Non sapevo che Patrizia fosse morta, non sapevo più niente, più niente. Niente.
Ci siamo salutati diciott’anni fa, una mattina a Reggio Calabria che facevo valige definitive per il nord e ora ti ritrovo a Baires. Buenos Aires, Baires mi pare che dite voi. Più corto. Si risparmia tempo. Lo risparmiamo e chissà poi dove lo mettiamo.
Vent’anni addietro io facevo il giornalista e tu il video operatore. Lavoravamo insieme.
Vent’anni dopo io faccio il professore a Bergamo e tu il tassista a Baires.
Non c’è male in quanto a strade che si dividono e si rincontrano all’infinito come le rette parallele in qualche lezione di geometria digerita male al liceo.
Alejandro io non ho capito mai niente né di matematica e né di geometria però fin dai tempi delle elementari la mia maestra diceva che Ettore scrive bene, Ettore deve fare il giornalista.
Io quello ho fatto. Io il giornalista e tu l’operatore. Stringevi il campo, allargavi il campo, blow up, piano americano, camera car… sì la camera car fa sempre il suo effetto.
Puntalo bene il microfono direzionale Ettore, puntalo su quello che parla se no facciamo un sonoro che non va.
Ti ricordi Alessandro… ti ricordi?
Libertad 1264
El taximetro dice pesos 92,87
Qua si sta in taxi mezz’ora, non so quanti chilometri fai e paghi solo cento pesos. Mamma mia… è una miseria… Quanti sono cento pesos con la crisi? Due euro e qualcosa? Prova a state tre quarti d’ora in taxi a Milano che poi parliamo.
Sono trentamila i tassisti di Buenos Aires. Trentamila per tre milioni di abitanti in città. Lasciamo perdere la provincia se no arriviamo a sedici o diciassette milioni. Trentamila tassisti a tre, quattro, cinque euro all’ora. Eppure questo deve essere un qualche onorario in un’Argentina che non sa più bene se il denaro sia il denaro a furia di grandi e grandissime crisi. Tutti ti fanno la battuta della carta straccia… papel de desecho… carta sporca… papel sucio… Una cosa senza valore.
Com’è la storia della Casa Rosada? La casa è rosata per compromesso. Quando l’hanno completata c’erano due partiti in Argentina, i rossi e i bianchi insomma. E siccome la Casa deve rappresentare tutti, per compromesso, queridos amigos, mescoleremo il rosso col bianco e la tinteggeremo rosa sanando tutti i conflitti! Un bel rosa compromesso alla faccia delle camicie sbottonate di Peron, dei fiumi di sangue di Galtieri, del mito rivoluzionario del Che, dei padri della patria… che ne so… tipo Gregorio Aràoz de Lamadrid o Juan Larrea. Spalmiamo un rosa su tutto. Facciamo un Rosa Argentina, un colore crogiolo, un meltingpot latino un po’ fallito, un po’ realizzato. Una nazione di italiani che parlano portegno.
L’Argentina è un teatro di luci e di ombre come il cimitero della Recoleta, uno scenario di marmo e di ossa, di ragnatele e di gesta epiche incise nella pietra. Miserie e nobiltà, questo è l’Argentina. Uno stato a base di immigrati italiani e di spagnoli che ogni tanto accoppa un poco di mapuches per questioni minerarie. O simili.
Senza sacrifici di sangue, si sa, non se ne fanno stati nazionali di tutto rispetto.
Avenida Hipòlito Yrigoyen 3950
El taximetro dice pesos 147,66
Sai che due giorni fa una trasmissione sportiva di una radio web se l’è presa col mio ultimo romanzo? Dice che non gli piace l’associazione simbolica fra Palanca e Che Guevara. Insomma il romanzo è inadeguato. Così hanno detto e mica lo hanno spiegato. Per conto mio, io dico che stiamo per umiliare i sogni. Quelli piccoli, da fanciulli. Quelli ingenui questo dico. I sogni sono inadeguati, sissignore. Sono obsoleti i sogni, non provate a farne.
Tanto Che Guevara vive anche se solo su magliette e portachiavi souvenir in qualche negozio di Baires, mica tutti. Eppure il Guerrillero Heroico era portegno, verdad? No, era di Rosario. Ah, mi ero dimenticato… L’uomo dimentica, gli argentini pure e quelli della radio non mi lasciano sognare a modo mio. Massimeddu io penso che dovremmo ribellarci. Ribellarsi è giusto, ribellarsi è possibile.
Insomma questa cosa c’è… Gli argentini sono tanti e sono sempre peronisti pure quando sono antiperonisti. Gli uruguaiani sono più di sinistra. Gli ultimi rimasti dopo che si è inabissato Lula in Brasile.
Ho comprato un portachiavi col Che per una mia collega. Devo farmene uno io con Palanca. Non credo che saranno capaci di proibirmelo quelli della radio.
Reconquista 572, esquina Tucumán
El taximetro dice pesos 202,31
Ti ricordi quel servizio del 1998 Alessandro? Andavamo a Melissa per i cinquant’anni dell’occupazione delle terre e della strage di Fondo Fragalà. Andavamo proprio a Fondo Fragalà a intervistare un vecchio capo contadino. Vatti a ricordare ora dopo venti anni come si chiamava.
Era tutta campagna e credo lo sia ancora.
Erano stati tutti molto gentili. Trovammo pure il sindaco, due vigili urbani, qualche altro vecchio sindacalista a Fondo Fragalà.
Pensai che era una campagna spoglia e che quel pendio appena accennato e pieno di pietre sapeva ancora dell’abbandono e dell’incolto.
Il nostro anziano testimone era di pelle scura ma bianco nei capelli. Magro, gli occhi vivi. Si mise a raccontare. Ti ricordi Alessandro? Tu lavoravi alla betacam e io ero in cuffia, facevo l’audio.
Il racconto cresceva di tensione sino alla scena del graduato che ordina alla polizia di sparare… Fuòcco! … Fuòcco!
Il vecchio capo contadino si fermò. Riviveva chiaramente tutto. Aveva le lacrime dentro agli occhi. Poi si girò verso fondo Fragalà deserto. Si girò, alzò il pugno chiuso e disse: “Grazie fratelli che siete morti per noi”.
Una fortunata sequenza di recensioni di “Tredici gol dalla bandierina” continua.
Ora l’articolo di Saverio Fontana con intervista allo scrittore (che sono io) su info/OGGI
Ganzerrima recensione di “Tredici gol dalla bandierina” di Alfredo Somoza che essendo argentino di calcio combat se ne intende
https://alfredosomoza.com/2018/10/16/tredici-gol-dalla-bandierina/