01
Feb
2021

Il Valore della Solitudine

Questa è una storia di molti anni fa che stasera mi torna in testa.
Una storia fatta di minime storie sul valore della solitudine.
Cosmas mi insegnò il valore della solitudine.
A me che credevo di saperlo e non sapevo nulla.
«Io sono un monaco… un monaco, capisci?… Lo sai il greco? Che vuol dire mónachos? Colui che è solo. E per stare da solo devi essere un fanatico e io sono un fanatico. Sono sempre stato un fanatico…»
Cosmas era un estremista di Dio e, grazie al suo estremismo, San Giovanni Theristis riemerse dalle macerie. Io come tanti me lo ricordo quel tempio come un cumulo di pietre e poi me lo ricordo ricostruito e con gli affreschi.
“La vostra bontà è come una nuvola del mattino, come la rugiada del mattino, che presto scompare (Osea 6:4)”
Era un pomeriggio dell’estate meravigliosa della ionica. Era bello sentir cantare nella nebbia candida dell’incenso. Poi sentir dire i salmi in italiano perché c’ero io.
«Mi piace questa traduzione Cosmas. Ne avete una copia al monastero? Vorrei comprarla…»
Non me l’hai fatto comprare, Cosmas. Hai preso quell’ultima copia con due o tre pagine scurite di gocce di cera piovuta da sotto qualche icona. Hai preso quell’ultima copia e senza smettere di cantare me l’hai messa in tasca.
Hai fatto un’enormità da solo. In anni e anni sei riuscito a convincere il mondo a riedificare un tempio bizantino per com’era. Lo hai fatto lavorando da monaco, col silenzio, con la preghiera continua ed esicastica come sul Monte Athos.
Lo hai fatto nell’ingratitudine dei politici, dei tuoi stessi confratelli ortodossi, di molti calabresi, italiani e greci.
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Hai fatto tutto da solo.
Eri quasi sempre solo quando ti venivo a trovare. Al massimo con Giancarlo. Ma non ti tiravi indietro.
«Non mi dire che ascolti Alice Cooper!»
«No, Cosmas… Ti sembro uno che potrebbe sentire Alice Cooper?»
«Meno male, non gradisco quelli che sentono Alice Cooper»
«Vuoi sapere quello che sento io? Non te lo so dire… sento un po’ di tutto…»
Sapevi che mi piace la filosofia e mi mostravi col dito il mistero di Platone che era un pagano ma compariva su un’ icona cristiana appesa in fondo alla chiesa.
La mia assoluta allergia alla religione Cosmas la accettava, gli bastava il mio interesse per la spiritualità.
La spiritualità e le sue mani nelle mani dietro la schiena, i suoi occhi a terra, il suo passeggiare lento verso qualche ulivo attorno al monastero.
Da solo, poi, hai affrontato l’umiliazione, l’esclusione da San Giovanni, quella stessa ingratitudine, quell’invidia insanabile verso la forza morale indistruttibile della tua solitudine.
La solitudine del monaco.
Hai fatto anche la morte sola del monaco, sul Monte Athos. Nella lontananza, escluso a forza da tutto ciò per cui avevi lottato.
Poche settimane prima che ti rispedissero in Grecia mi convincesti a fare una conferenza sulla lira nella cultura bizantina esattamente davanti all’iconostasi.
Ascoltavi, andavi e venivi. Alla fine ti chiesi perché.
«Perché me l’hai fatto fare?»
«Perché pure tu sei un fanatico a modo tuo».
Sì ma incapace della grandezza della tua solitudine
“Si spanda il mio insegnamento come la pioggia, stilli la mia parola come la rugiada, come la pioggerella sopra la verdura e come un acquazzone sopra l’erba” (Deuteronomio 32:2)
25
Gen
2021

E scusate la precisazione…

Cari Amici che oggi scoprite che esistono canzonette di ‘ndrangheta in Calabria perché qualche giornalista si è svegliato tardi,
scusatemi il passaggio “immodesto” ma vi faccio presente che sono stato il primo ad occuparsene in modo organico e non episodico con un tentativo di riflessione etnografica nel 1984 e poi nel 1986 con la mia tesi di laurea. Aggiungo poi che dal 1986 il compianto Roberto Leydi mise a disposizione il suo archivio e diede indicazioni a me e Pasquale Greco per una ricerca e classificazione di quello che esisteva fino a quel momento in vista di una pubblicazione che , purtroppo, non vide mai la luce. Negli anni successivi ciclicamente qualche giornalista ha “scoperto” il problema. Successivamente, negli ultimi decenni in ambito scientifico qualcuno ha cercato di referenziarsi come studioso del fenomeno ma lascio la valutazione ai posteri. Se poi salterà fuori qualche altro studio organico antecedente al mio mi farà piacere ma continuo a fare presente che la ricerca preliminare inizió nel 1981. Passati vari anni, il mio lavoro è continuato e dopo vari articoli finalmente nel 2010 ho pubblicato “Sangue e onore in digitale” sull’immagine contemporanea della ‘ndrangheta anche in altri ambiti oltre quello musicale.142719136_10224551934095501_8298501428890531270_o
Fra un’indignazione e l’altra, magari andatevelo a leggere. Oltre il parterre etnografico, qualche riflessione onesta dentro la troverete…
Di tutto questo volume, che ha oramai dieci anni, forse il solo capitolo sul cinema andrebbe oramai aggiornato ma il resto ha ancora qualcosa da dire.
PS Ad onor del vero Sharo Gambino del 1975 scrisse un capitolo sul tema in “Mafia, la lunga notte della Calabria” ma io mi riferisco a ricerche strutturate. Sono due cose che considero diverse.
26
Dic
2020

Io, Muccino e la Calabria

Il 22 ottobre ho pubblicato su Facebook il seguente  lunghissimo post con qualche chiosa  sullo spot turistico sulla Calabria di Muccino.
Il post, che voleva essere solo una riflessione del tutto personale, ha assunto una inattesa viralità con varie migliaia di like e condivisioni. Per dovere di cronaca lo riporto “antologicamente” sul mio blog in questa chiusura d’anno.
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Caro Muccino,
era il 1992 e qualcuno mi scattò questa polaroid al Liceo Artistico di Bergamo. Da lì a poco mi sarei licenziato da professore. Volevo rientrare in Calabria per fare il giornalista. Il mio preside (napoletano mi pare) di allora mi disse: “Castagna lei è pazzo… Lei è il primo meridionale statale al Nord che si licenzia per andare a fare il privato al Sud”. Mia madre sapendo che rinunciavo alu posticeddu si rivolse alla Madonna senza successo. La mia testa non cambiava. Mi divorava la Nostalgia. Volevo cambiare il mondo e, sopratutto, la Calabria.
Così ho provato a fare e mi sono licenziato.
La Calabria non mi aspettava e non mi accolse a braccia aperte. Passai otto anni ad accorgermi che la Nostalgia è un sentimento perfido che fa vedere le cose come non sono mai state. Proprio a noi che le abbiamo vissute.
Riesce a migliorare anche i brutti ricordi o le tristezze più taglienti. Come fanno le Ricordanze di Leopardi.
Non è la Nostalgia che ci salverà. Ma, forse, la Memoria. Magari è il caso di ricordare che le cose hanno lati belli e brutti. Che esiste l’amaro e il dolce. Che ognuno di noi è accompagnato, come dice il Corano, da un Angelo del Bene e un Angelo del Male.
Correva il fatidico duemila e rinunciai alla Calabria per ricondurmi al Nord. Il mio rivoluzionario lavoro calabrese non mi dava da vivere. Mi aspettava qualche anno di libera professione e, poi, tornare a fare il professore. Mi sarei di nuovo fatto fregare dalla Scuola e poi dall’Università…
La Nostalgia da una parte mi aveva fottuto e dall’altra mi aveva dato un’opportunità per conoscere meglio me e la terra dove sono nato.
Caro Muccino, tu non leggerai mai questo post ma, se caso mai, proprio ora,mi leggessi staresti pensando: “… ma questo… che dice?… Questo che vuole?”
Dammi tempo, amico mio.
La Regione Calabria ti ha commissionato un corto con una mission. Rappresentare la Calabria al mercato del Turismo. Si tratta di un mercato del sogno. Dove il sogno è acquistabile più o meno a buon mercato. La Nostalgia è una leva potentissima in questo mercato. Sopratutto la Nostalgia verso quello che mai si è vissuto. La Nostalgia dell’autenticità che è in vendita tutti i giorni sui banchi dei supermercati di tutto il mondo.
Per questo motivo, artisticamente parlando, entrare dentro la Nostalgia è un fatto da grandi. Non è affare per piccoli. Il cinema è pieno di esempi più che mirabili. C’è una immensa, abissale differenza fra la nostalgia del professor Castagna (e dei suoi sogni rivoluzionari) e la nostalgia cinematografica processata in qualcosa che non si è mai visto da parte di qualcuno estraneo ai luoghi.
Eh, già… Parliamo di musica…
Conosci “Canciòn Mixteca”? C’entra con la colonna sonora di “Paris Texas” di quel colosso di Wenders, suonata da quel colosso di Ry Cooder.
Non sono entrambi mixtechi ma hanno capito, in questa canzone, l’essenza della Nostalgia. Non citiamolo tutto il testo ma solo la prima parte. Chi canta si sente lontano dal “suelo” dove è nato. “El suelo”, il suolo. Qualcosa di meno immaginifico e polisemico della parola “terra”. Suolo… Pare una cosa edilizia ma c’è un legame. Esiste un legame con quel suolo, recidendo il quale, il mondo è tristezza e solitudine. È una tristezza dolce per la quale vale la pena di morire di “sentimento”.
Qué lejos estoy del suelo
donde he nacido
Inmensa nostalgia
invade mi pensamiento
Al ver me tan solo y triste
cual hoja al viento
Quisiera llorar
Quisiera morir
de sentimiento
Non mi interessa, illustrissimo, che tu abbia “interpretato” al tuo modo questa famosa Nostalgia del mai visto e del mai vissuto. Questo è del tutto legittimo. È artistico, direi. Con finalità commerciali? Anche questo potrebbe essere legittimo in un lavoro su commissione. Mi fa sorridere l’approssimazione da Sicilia Minore con la quale hai rappresentato la Calabria di fronte a un possibile pubblico estraneo. Sembra il corto di un fratello scemo di Tornatore (che scemo non è per nulla). Costruisci una nostalgia di cose autenticamente improbabili, irreperibili, invisibili. Come due personaggi seduti al centro di una piazza a commentare con un accento inesistente degli atteggiamenti da innamorati improbabili sotto una luce solare irrealisticamente cinematografica.
Parlando in (davvero) grande, tu non sei Ulisse e non sai il dolore del ritorno per un’Itaca ben conosciuta.
Parlando in piccolo, tu non sei Castagna e non sai il dolore del ritorno verso il cemento e gli ulivi del Rione Stadio, Catanzaro.
Tu sei un regista che deve indurre nostalgia nel turista. Per ragioni promozionali e commerciali. La famosa nostalgia del mai conosciuto che muove il mercato delle visite, degli alberghi e delle spiagge. Cerchi di provocare la nostalgia di un tempo andato, garantito in un presente della periferia italiana, in un pubblico da prima serata di Rai Uno.
Ma lo hai fatto senza scrittura, senza simbolo e senza valore.
La mano di lui sulla coscia della protagonista in uno dei primi take del corto non è erotismo, è una sciatteria comunicativa.
La Calabria non è testosterone misto a un paesaggio rurale da pubblicità del Mulino Bianco nonché un mare verde di Criptonite dove nemmeno Superman potrebbe bagnarsi.
Non attacca. A chi la vuoi vendere questa Nostalgia, Muccino?
Il cliente certamente comprerà una più credibile e stereotipa nostalgia per i Caraibi, per Hammamet, per le Canarie, per Napoli e per la Sicilia.
La Calabria è, certe volte, bellezza per il turista e, spesso, amarezza, per il nativo. Ma tu di questo non hai saputo rappresentare nulla.
Scrivimi in privato. Che lo story board te lo rifaccio io. Gratis.
26
Dic
2020

Caffè caffè caffè caldo caffè…

Fare l’Università a Salerno per me voleva dire la pizza premio a Napoli dopo ogni esame. Era un rito che compivo in solitudine. Dopo la disavventura di un 26, sprovvedutamente accettato, giurai che avrei rifiutato tutti i voti sotto il 30. E così fu. Solo 30 per una vera laurea gloriosa! Al max 30 e lode… Per cui fare un esame era una prova di forza che esigeva un premio. Il premio era la mia passione: una pizza napoletana a Napoli.
A Napoli Centrale, tutte le volte che passavo c’era la massa orientale degli ambulanti che vendevano ogni cosa. Allora i treni non erano sigillati come acquari tropicali a Stoccolma e la gente abbassava il finestrino e comprava di tutto da quelli che oggi chiameremmo abusivi.
Un soggetto da mitologia plebea era un signore di età indefinibile, neri capelli corvini tirati meticolosamente all’indietro come Totò, cesto con vivande e occhiali della mutua di quella indimenticabile plasticaccia nera da postumi del boom economico con lenti fondo di bottiglia. Il suo grido di richiamo era: “Caffè caffè, caffè caldo caffè”. Lo ripeteva come un mantra, con una voce potente e mediosa, un po’ come un megafono. Avrei voluto fotografarlo ma non ci riuscii mai. Mi pareva come una mancanza di rispetto. Un farlo diventare souvenir mentre quello, credo, che con questo cercasse solo il pane quotidiano. Lo vidi per anni, per oltre un decennio, forse molto di più. Tutte le volte che passavo da Napoli, in treno, a tutte le ore lui c’era. Non comprai mai nulla ma lo osservavo da quando si avvicinava sino a quando non si perdeva lungo il binario fra la folla.
“Caffè caffè, caffè caldo caffè”…
Una volta da Napoli ci passai in cuccetta e il suo mantra mi fece alzare dal letto. Mi entrava in testa quel mantra come la visione tragica, proletaria e surreale dello scotch sulla stanghetta rotta dei suoi occhiali della mutua.
Eppure quell’uomo era sempre al lavoro. A tutte le ore. Cosa non si fa per sbarcare un magro lunario…
“Caffè caffè, caffè caldo caffè”…
Quella notte non riuscii a prendere sonno e mi misi ad analizzare in mente quel mantra.
“Caffè caffè, caffè caldo caffè”…
Presi l’agenda e iniziai a segnare appunti di quella che allora mi parve un’analisi metrica e che ancora mi ricordo.
Dunque:
Caf/fè caf/fè caf/fè cal/do caf/fè
Sarà un pentametro giambico?Caffè-Napoletano-Ricetta-Originale-1
No, non è un decasillabo ma un endecasillabo tronco. L’accento sull’ultima parla chiaro in metrica. In pratica è come se valesse due. Endecasillabo, sì endecasillabo. Il verso più usato dalla poesia italiana colta e popolare.
E fin qui ok.
Molto giambico è l’andamento delle prime quattro sillabe con quel serrato caffè caffè…
Poi vediamo gli ictus: seconda, quarta, settima, decima. Sì funziona… ma non ci arrivai subito perché l’accento di caffè mi disturbava. Poi mi soccorse quel poco di metrica fatta al mio Liceo Classico:
L’accento tonico impedisce di considerare ictus l’accento di caffè sulla sesta. In nessun verso si potrebbero collocare due ictus uno vicino all’altro. Allora ecco che l’ictus va su càldo. Sì, ecco… deve essere così. È proprio in questo preziosismo metrico/ritmico che si annida il fascino musicale di questo verso/mantra
Ictus sulla seconda, sulla quarta, sulle settima e sulla decima.
Caffè caffè caffè cAldo caffè
Caffè caffè caffè cAldo caffè
Caffè caffè caffè cAldo caffè
Dopo un poco, steso nella cuccetta, l’ipnosi fu totale e mi cadde la penna di mano. Mi risvegliai al mattino presto, il treno era già verso Lodi.
17
Lug
2020

Dal 30 luglio “Della Grecìa perduta” in libreria

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(Dal risvolto di copertina)

In Della Grecìa perduta torna il mondo magico e selvatico di una Calabria,  Sud di tutti i Sud, già scenario di Del sangue e del vino.

Nino, pastore greco sedicenne, ucciso da un soldato spagnolo, dopo aver dormito immerso nel vino novantanove anni, due mesi e diciassette giorni, riprende vita in virtù di un qualche sortilegio. E si inoltra per la campagna deserta. A proteggerlo e a infondergli pensieri è il Dragumeno, una sorta di demone centauro che si manifesta talvolta in varie forme, come faceva con Caterina, sua madre.

Nel suo errare Nino incontra una terra poverissima, dai paesaggi incantevoli, contesa da  Francesi e Inglesi durante il breve dominio di Gioacchino Murat, nel cui esercito, con devozione assoluta, si arruola prima di assistere con grande dolore alla fucilazione del mitico Cavaliere. Con essa, infranti il sogno e la speranza di cambiamento, si rimette in cammino, alla continua ricerca della sua Grecìa perduta. E il Nostòs diventa elegia. 

L’arcaicità affascinante sgorga come acqua limpida di sorgente, con andamento da favola antica. Sacro e profano, mito, leggenda e storia si intrecciano a una visione panica della natura animata da spiriti dai nomi inconsueti. 

Il sapore delle fiabe, le gesta epico-cavalleresche degli eroi ai tempi delle crociate, la Bibbia e la vita dei Santi ad uso del popolo minuto confluiscono e interagiscono con modelli di alta letteratura grazie ad un impasto linguistico che ravviva e rende ammaliante il racconto, legandolo, idealmente, all’Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo e all’Oga Magoga di Giuseppe Occhiato.

28
Mag
2020

Fenomenologia di un uovo fritto

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Mia nonna Maria era cieca e aveva paura di aprire la porta a chiunque. Ancor di più, quando era a casa con i nipotini, da sola.
Riconosceva però, dalla voce, dietro la porta l’ovaru.
«Ova e ricotteddi… Ova e ricotteddi…»
«Trasiti bell’omu… Trasiti…»
L’ovaru non mi pareva bello. Ci mancavano tutti i denti ed era sempre scuro e sudato di campagna e viaggio, però posava sul tavolo nel cestino sempre almeno quattro uova belle cacate dalla gallina e, certe volte, una bella ricottedda di latte misto pecora e capra.
Verso le dieci e mezza rientrava mia madre dalla spesa: «Ettorù, u voi l’oviceddu?»
Mia madre ha sempre concepito l’uovo fritto come un mangiare da re. Prima il padellino d’alluminio a calentare bene sul gas, poi l’olio d’oliva a fumare. E, quando la temperatura era al massimo della sua dotta prolusione, ecco cadervi l’oviceddu.
Mia madre sorrideva sempre mentre vedeva montare sfrigolando il bianco nel fumo della frittura, prendeva una ddramma (una parola antichissima, vuol dire una quantità minimale) di sale fino fra le punte di tre dita e lasciava andare sul rosso.
Il padellino mi arrivava fumante sotto il naso con un poco di pitta bianca. In tutta la Calabria si fa la pitta. Però quella bianca, tonda e stretta di Catanzaro, quella del forno del mio rione, quella della carta del pane aperto da mia madre con le mani della quotidiana fatica, quella portata a casa per quattro piani di scale insieme a pomodori, cucuzze e tre etti di carne tritata era la più buona dell’universo.
L’ovu dell’ovaru era, poi, speciale. Credo che quell’uomo arrivasse addirittura da Cardinale o da Chiaravalle a vendere quelle uova e quelle ricotte.
«Va’ e viene sicuro ccu postala… u postala… eh, l’autobussu… comu u chiami tu, niputeddu?»
Per me, tutta la vita, l’uovo al tegamino è rimasto un mangiare da re.
Rifaccio tutto quello che faceva mia madre. Ogni tanto officio il rito se, alla controra, sono a casa. Cerco quell’odore oggi e cerco quel sapore oggi nel rosso dell’uovo col codice a barre sopra la scorza.
Ma non lo trovo mai più.

09
Apr
2020

Il mio “Tredici gol dalla bandierina” su La Stampa

In un articolone sul Grande Massimeddu, l’8 aprile, il giornalista ha avuto la bontà di menzionare il mio romanzo.
Ringrazio la Stampa e tutti i stampini!
Questo il passaggio che parla del romanzo:
«Tredici gol dalla bandierina è un record ed è anche il titolo di un libro di Ettore Castagna, edizioni Rubbettino: il protagonista è un ragazzo di quegli anni e di quel luogo che “sogna vita, musica e rivoluzione rivolgendosi alla figura mitica di Massimeddu”, dialoga con lui, chiede consiglio».
L’intero articolo lo trovate su:

https://www.lastampa.it/sport/calcio/2020/04/08/news/tredici-gol-dalla-bandierina-su-rai3-la-fiaba-di-palanca-1.38694338?refresh_ce

Ettore Castagna, Tredici gol dalla bandierina, Rubbettino, Velvet, 2018