26
Dec
2020

Io, Muccino e la Calabria

Il 22 ottobre ho pubblicato su Facebook il seguente  lunghissimo post con qualche chiosa  sullo spot turistico sulla Calabria di Muccino.
Il post, che voleva essere solo una riflessione del tutto personale, ha assunto una inattesa viralità con varie migliaia di like e condivisioni. Per dovere di cronaca lo riporto “antologicamente” sul mio blog in questa chiusura d’anno.
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Caro Muccino,
era il 1992 e qualcuno mi scattò questa polaroid al Liceo Artistico di Bergamo. Da lì a poco mi sarei licenziato da professore. Volevo rientrare in Calabria per fare il giornalista. Il mio preside (napoletano mi pare) di allora mi disse: “Castagna lei è pazzo… Lei è il primo meridionale statale al Nord che si licenzia per andare a fare il privato al Sud”. Mia madre sapendo che rinunciavo alu posticeddu si rivolse alla Madonna senza successo. La mia testa non cambiava. Mi divorava la Nostalgia. Volevo cambiare il mondo e, sopratutto, la Calabria.
Così ho provato a fare e mi sono licenziato.
La Calabria non mi aspettava e non mi accolse a braccia aperte. Passai otto anni ad accorgermi che la Nostalgia è un sentimento perfido che fa vedere le cose come non sono mai state. Proprio a noi che le abbiamo vissute.
Riesce a migliorare anche i brutti ricordi o le tristezze più taglienti. Come fanno le Ricordanze di Leopardi.
Non è la Nostalgia che ci salverà. Ma, forse, la Memoria. Magari è il caso di ricordare che le cose hanno lati belli e brutti. Che esiste l’amaro e il dolce. Che ognuno di noi è accompagnato, come dice il Corano, da un Angelo del Bene e un Angelo del Male.
Correva il fatidico duemila e rinunciai alla Calabria per ricondurmi al Nord. Il mio rivoluzionario lavoro calabrese non mi dava da vivere. Mi aspettava qualche anno di libera professione e, poi, tornare a fare il professore. Mi sarei di nuovo fatto fregare dalla Scuola e poi dall’Università…
La Nostalgia da una parte mi aveva fottuto e dall’altra mi aveva dato un’opportunità per conoscere meglio me e la terra dove sono nato.
Caro Muccino, tu non leggerai mai questo post ma, se caso mai, proprio ora,mi leggessi staresti pensando: “… ma questo… che dice?… Questo che vuole?”
Dammi tempo, amico mio.
La Regione Calabria ti ha commissionato un corto con una mission. Rappresentare la Calabria al mercato del Turismo. Si tratta di un mercato del sogno. Dove il sogno è acquistabile più o meno a buon mercato. La Nostalgia è una leva potentissima in questo mercato. Sopratutto la Nostalgia verso quello che mai si è vissuto. La Nostalgia dell’autenticità che è in vendita tutti i giorni sui banchi dei supermercati di tutto il mondo.
Per questo motivo, artisticamente parlando, entrare dentro la Nostalgia è un fatto da grandi. Non è affare per piccoli. Il cinema è pieno di esempi più che mirabili. C’è una immensa, abissale differenza fra la nostalgia del professor Castagna (e dei suoi sogni rivoluzionari) e la nostalgia cinematografica processata in qualcosa che non si è mai visto da parte di qualcuno estraneo ai luoghi.
Eh, già… Parliamo di musica…
Conosci “Canciòn Mixteca”? C’entra con la colonna sonora di “Paris Texas” di quel colosso di Wenders, suonata da quel colosso di Ry Cooder.
Non sono entrambi mixtechi ma hanno capito, in questa canzone, l’essenza della Nostalgia. Non citiamolo tutto il testo ma solo la prima parte. Chi canta si sente lontano dal “suelo” dove è nato. “El suelo”, il suolo. Qualcosa di meno immaginifico e polisemico della parola “terra”. Suolo… Pare una cosa edilizia ma c’è un legame. Esiste un legame con quel suolo, recidendo il quale, il mondo è tristezza e solitudine. È una tristezza dolce per la quale vale la pena di morire di “sentimento”.
Qué lejos estoy del suelo
donde he nacido
Inmensa nostalgia
invade mi pensamiento
Al ver me tan solo y triste
cual hoja al viento
Quisiera llorar
Quisiera morir
de sentimiento
Non mi interessa, illustrissimo, che tu abbia “interpretato” al tuo modo questa famosa Nostalgia del mai visto e del mai vissuto. Questo è del tutto legittimo. È artistico, direi. Con finalità commerciali? Anche questo potrebbe essere legittimo in un lavoro su commissione. Mi fa sorridere l’approssimazione da Sicilia Minore con la quale hai rappresentato la Calabria di fronte a un possibile pubblico estraneo. Sembra il corto di un fratello scemo di Tornatore (che scemo non è per nulla). Costruisci una nostalgia di cose autenticamente improbabili, irreperibili, invisibili. Come due personaggi seduti al centro di una piazza a commentare con un accento inesistente degli atteggiamenti da innamorati improbabili sotto una luce solare irrealisticamente cinematografica.
Parlando in (davvero) grande, tu non sei Ulisse e non sai il dolore del ritorno per un’Itaca ben conosciuta.
Parlando in piccolo, tu non sei Castagna e non sai il dolore del ritorno verso il cemento e gli ulivi del Rione Stadio, Catanzaro.
Tu sei un regista che deve indurre nostalgia nel turista. Per ragioni promozionali e commerciali. La famosa nostalgia del mai conosciuto che muove il mercato delle visite, degli alberghi e delle spiagge. Cerchi di provocare la nostalgia di un tempo andato, garantito in un presente della periferia italiana, in un pubblico da prima serata di Rai Uno.
Ma lo hai fatto senza scrittura, senza simbolo e senza valore.
La mano di lui sulla coscia della protagonista in uno dei primi take del corto non è erotismo, è una sciatteria comunicativa.
La Calabria non è testosterone misto a un paesaggio rurale da pubblicità del Mulino Bianco nonché un mare verde di Criptonite dove nemmeno Superman potrebbe bagnarsi.
Non attacca. A chi la vuoi vendere questa Nostalgia, Muccino?
Il cliente certamente comprerà una più credibile e stereotipa nostalgia per i Caraibi, per Hammamet, per le Canarie, per Napoli e per la Sicilia.
La Calabria è, certe volte, bellezza per il turista e, spesso, amarezza, per il nativo. Ma tu di questo non hai saputo rappresentare nulla.
Scrivimi in privato. Che lo story board te lo rifaccio io. Gratis.
26
Dec
2020

Caffè caffè caffè caldo caffè…

Fare l’Università a Salerno per me voleva dire la pizza premio a Napoli dopo ogni esame. Era un rito che compivo in solitudine. Dopo la disavventura di un 26, sprovvedutamente accettato, giurai che avrei rifiutato tutti i voti sotto il 30. E così fu. Solo 30 per una vera laurea gloriosa! Al max 30 e lode… Per cui fare un esame era una prova di forza che esigeva un premio. Il premio era la mia passione: una pizza napoletana a Napoli.
A Napoli Centrale, tutte le volte che passavo c’era la massa orientale degli ambulanti che vendevano ogni cosa. Allora i treni non erano sigillati come acquari tropicali a Stoccolma e la gente abbassava il finestrino e comprava di tutto da quelli che oggi chiameremmo abusivi.
Un soggetto da mitologia plebea era un signore di età indefinibile, neri capelli corvini tirati meticolosamente all’indietro come Totò, cesto con vivande e occhiali della mutua di quella indimenticabile plasticaccia nera da postumi del boom economico con lenti fondo di bottiglia. Il suo grido di richiamo era: “Caffè caffè, caffè caldo caffè”. Lo ripeteva come un mantra, con una voce potente e mediosa, un po’ come un megafono. Avrei voluto fotografarlo ma non ci riuscii mai. Mi pareva come una mancanza di rispetto. Un farlo diventare souvenir mentre quello, credo, che con questo cercasse solo il pane quotidiano. Lo vidi per anni, per oltre un decennio, forse molto di più. Tutte le volte che passavo da Napoli, in treno, a tutte le ore lui c’era. Non comprai mai nulla ma lo osservavo da quando si avvicinava sino a quando non si perdeva lungo il binario fra la folla.
“Caffè caffè, caffè caldo caffè”…
Una volta da Napoli ci passai in cuccetta e il suo mantra mi fece alzare dal letto. Mi entrava in testa quel mantra come la visione tragica, proletaria e surreale dello scotch sulla stanghetta rotta dei suoi occhiali della mutua.
Eppure quell’uomo era sempre al lavoro. A tutte le ore. Cosa non si fa per sbarcare un magro lunario…
“Caffè caffè, caffè caldo caffè”…
Quella notte non riuscii a prendere sonno e mi misi ad analizzare in mente quel mantra.
“Caffè caffè, caffè caldo caffè”…
Presi l’agenda e iniziai a segnare appunti di quella che allora mi parve un’analisi metrica e che ancora mi ricordo.
Dunque:
Caf/fè caf/fè caf/fè cal/do caf/fè
Sarà un pentametro giambico?Caffè-Napoletano-Ricetta-Originale-1
No, non è un decasillabo ma un endecasillabo tronco. L’accento sull’ultima parla chiaro in metrica. In pratica è come se valesse due. Endecasillabo, sì endecasillabo. Il verso più usato dalla poesia italiana colta e popolare.
E fin qui ok.
Molto giambico è l’andamento delle prime quattro sillabe con quel serrato caffè caffè…
Poi vediamo gli ictus: seconda, quarta, settima, decima. Sì funziona… ma non ci arrivai subito perché l’accento di caffè mi disturbava. Poi mi soccorse quel poco di metrica fatta al mio Liceo Classico:
L’accento tonico impedisce di considerare ictus l’accento di caffè sulla sesta. In nessun verso si potrebbero collocare due ictus uno vicino all’altro. Allora ecco che l’ictus va su càldo. Sì, ecco… deve essere così. È proprio in questo preziosismo metrico/ritmico che si annida il fascino musicale di questo verso/mantra
Ictus sulla seconda, sulla quarta, sulle settima e sulla decima.
Caffè caffè caffè cAldo caffè
Caffè caffè caffè cAldo caffè
Caffè caffè caffè cAldo caffè
Dopo un poco, steso nella cuccetta, l’ipnosi fu totale e mi cadde la penna di mano. Mi risvegliai al mattino presto, il treno era già verso Lodi.
17
Jul
2020

Dal 30 luglio “Della Grecìa perduta” in libreria

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(Dal risvolto di copertina)

In Della Grecìa perduta torna il mondo magico e selvatico di una Calabria,  Sud di tutti i Sud, già scenario di Del sangue e del vino.

Nino, pastore greco sedicenne, ucciso da un soldato spagnolo, dopo aver dormito immerso nel vino novantanove anni, due mesi e diciassette giorni, riprende vita in virtù di un qualche sortilegio. E si inoltra per la campagna deserta. A proteggerlo e a infondergli pensieri è il Dragumeno, una sorta di demone centauro che si manifesta talvolta in varie forme, come faceva con Caterina, sua madre.

Nel suo errare Nino incontra una terra poverissima, dai paesaggi incantevoli, contesa da  Francesi e Inglesi durante il breve dominio di Gioacchino Murat, nel cui esercito, con devozione assoluta, si arruola prima di assistere con grande dolore alla fucilazione del mitico Cavaliere. Con essa, infranti il sogno e la speranza di cambiamento, si rimette in cammino, alla continua ricerca della sua Grecìa perduta. E il Nostòs diventa elegia. 

L’arcaicità affascinante sgorga come acqua limpida di sorgente, con andamento da favola antica. Sacro e profano, mito, leggenda e storia si intrecciano a una visione panica della natura animata da spiriti dai nomi inconsueti. 

Il sapore delle fiabe, le gesta epico-cavalleresche degli eroi ai tempi delle crociate, la Bibbia e la vita dei Santi ad uso del popolo minuto confluiscono e interagiscono con modelli di alta letteratura grazie ad un impasto linguistico che ravviva e rende ammaliante il racconto, legandolo, idealmente, all’Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo e all’Oga Magoga di Giuseppe Occhiato.

28
May
2020

Fenomenologia di un uovo fritto

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Mia nonna Maria era cieca e aveva paura di aprire la porta a chiunque. Ancor di più, quando era a casa con i nipotini, da sola.
Riconosceva però, dalla voce, dietro la porta l’ovaru.
«Ova e ricotteddi… Ova e ricotteddi…»
«Trasiti bell’omu… Trasiti…»
L’ovaru non mi pareva bello. Ci mancavano tutti i denti ed era sempre scuro e sudato di campagna e viaggio, però posava sul tavolo nel cestino sempre almeno quattro uova belle cacate dalla gallina e, certe volte, una bella ricottedda di latte misto pecora e capra.
Verso le dieci e mezza rientrava mia madre dalla spesa: «Ettorù, u voi l’oviceddu?»
Mia madre ha sempre concepito l’uovo fritto come un mangiare da re. Prima il padellino d’alluminio a calentare bene sul gas, poi l’olio d’oliva a fumare. E, quando la temperatura era al massimo della sua dotta prolusione, ecco cadervi l’oviceddu.
Mia madre sorrideva sempre mentre vedeva montare sfrigolando il bianco nel fumo della frittura, prendeva una ddramma (una parola antichissima, vuol dire una quantità minimale) di sale fino fra le punte di tre dita e lasciava andare sul rosso.
Il padellino mi arrivava fumante sotto il naso con un poco di pitta bianca. In tutta la Calabria si fa la pitta. Però quella bianca, tonda e stretta di Catanzaro, quella del forno del mio rione, quella della carta del pane aperto da mia madre con le mani della quotidiana fatica, quella portata a casa per quattro piani di scale insieme a pomodori, cucuzze e tre etti di carne tritata era la più buona dell’universo.
L’ovu dell’ovaru era, poi, speciale. Credo che quell’uomo arrivasse addirittura da Cardinale o da Chiaravalle a vendere quelle uova e quelle ricotte.
«Va’ e viene sicuro ccu postala… u postala… eh, l’autobussu… comu u chiami tu, niputeddu?»
Per me, tutta la vita, l’uovo al tegamino è rimasto un mangiare da re.
Rifaccio tutto quello che faceva mia madre. Ogni tanto officio il rito se, alla controra, sono a casa. Cerco quell’odore oggi e cerco quel sapore oggi nel rosso dell’uovo col codice a barre sopra la scorza.
Ma non lo trovo mai più.

09
Apr
2020

Il mio “Tredici gol dalla bandierina” su La Stampa

In un articolone sul Grande Massimeddu, l’8 aprile, il giornalista ha avuto la bontà di menzionare il mio romanzo.
Ringrazio la Stampa e tutti i stampini!
Questo il passaggio che parla del romanzo:
«Tredici gol dalla bandierina è un record ed è anche il titolo di un libro di Ettore Castagna, edizioni Rubbettino: il protagonista è un ragazzo di quegli anni e di quel luogo che “sogna vita, musica e rivoluzione rivolgendosi alla figura mitica di Massimeddu”, dialoga con lui, chiede consiglio».
L’intero articolo lo trovate su:

https://www.lastampa.it/sport/calcio/2020/04/08/news/tredici-gol-dalla-bandierina-su-rai3-la-fiaba-di-palanca-1.38694338?refresh_ce

Ettore Castagna, Tredici gol dalla bandierina, Rubbettino, Velvet, 2018

07
Apr
2020

Il paradiso dei suonatori – Ο παράδεισος των μουσικών

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di Ettore Castagna
Traduzione dall’italiano al greco: Phaidon Hadjantoniou
Μετάφραση από τα ιταλικά · Φαίδων Χατζηαντωνίου

Nicos tu sei di sicuro nel paradiso dei suonatori.
Se devo pensare a un grande suonatore di lira penso a te.
Niente a che vedere con la lira muscolare e nevrotica che certe volte si sente in giro.
E nemmeno con la lira new age.
Tu eri un suonatore della Tracia. La tua era la lira trakiotika. Ma poi suonavi tutto.
Ti ho sentito fare una volta anche un cifteteli. Ahi ahi ahi…
Quando mi hai chiesto di portarti una lira dalla Calabria per me fu tutta una sorpresa. Io venivo in Grecia, venivo in Tracia come un pellegrinaggio. Io cercavo in te le mie radici.
Il paradiso dei suonatori – Ο παράδεισος των μουσικών

30
Mar
2020

Una spiaggia lontana, una terra lontana…

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Una spiaggia lontana, una terra lontana. Una statua di Madonna sotto un cielo nero. Sopra un mare nero.
Potrebbe essere pure dietro la mia finestra.
Potrebbe.
Dietro la mia finestra silenzio, ogni tanto un’ambulanza. Siamo pur sempre a Bergamo durante la grande epidemia.
Ho lasciato tre stampi di legno di gelso sul balcone a prendere il sole.
Tre stampi per formaggio comprati in Turchia, dentro un mercatino di Smirne.
Il sole li scurisce prima così. Meglio che tenerli in un cassetto. Fra qualche giorno sembreranno antichi.
Poi.
Una spiaggia lontana, una terra lontana. Deve essere Nicotera. A dicembre penso. Quanti anni. Anni.
Tu dove sei?
E tu?
E dove tu, amico mio?
Ognuno col naso schiacciato sul vetro di una finestra a contare pensieri, steli d’erba di quella passeggiata sopra un sentiero di roccia a picco sul Tirreno l’anno scorso, lo scontrino del negozio di strumenti musicali del 1997, venuto fuori da un libro abbandonato e aperto perché oggi ho tempo.
Un libro aperto e un vecchio scontrino a segnalibro che vola in terra.
Una spiaggia lontana, una terra lontana.
Gente sotto una statua di Madonna, sotto un cielo di tempesta.
Anch’io ho sul muro un’icona della Madonna che mi guarda. Ma da sopra un immoto fondo d’oro. Portata dalla Grecia tant’anni fa.
L’icona divide, sopra il muro, strumenti musicali che suono ogni tanto, quando ho tempo.
Due lire di qua, una chitarra dall’altra parte.
Oggi ho tempo e non suono.
Conto invece i minuti, i secondi, le ore, i giorni, le settimane e distinguo nella mente il senso di quel secondo dal senso di quell’altro secondo.
Capisco, allora, che ogni secondo ha il senso suo come fossero petali di ginestra sotto il sole. Da non sciupare.
Da non sciupare anche se la ginestra è di fibra forte. Era indistruttibile un corredo di filato di ginestra… No, Ma’? Non è accussì?
Eh, sì… figghiu, sì.
Una spiaggia lontana, una terra lontana.
Quella Madonna conta. E quella speranza.
Conta il segno, il simbolo, il valore.
Conta varcare l’acqua di una spiaggia come varcare il vetro della finestra con lo sguardo.
Sentendo il fratello di là dal muro. E la ginestra piegarsi e risalire di nuovo sotto il vento.

Foto di Carlo Paone ©

(Grazie Carlo, la foto è meravigliosa)

17
Mar
2020

Il bambino coi baffi e il Covid19

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Lo pensi continuamente.
Nel 1920 mia nonna Maria si prese la spagnola e guarì. Dopo cent’anni, un altro nemico piccolo si ripresenta alla porta e ci acconza a tutti.
Mo’ questo mi passa ai polmoni e mi ammazza.
Lo pensi più volte al giorno.
Da un minimo di tre e un massimo di diciassette. Perché quello è il numero sfortunato.
Èptakaidekafobìa.
La paura del numero diciassette. Allora, per evitare, passi al numero primo superiore.
Tuttappostu.
Lo pensi massimo diciannove volte al giorno. Lo moltiplichi per ogni colpo di tosse.
Nonna, nonna, nonna. Raccontami la storia del bambino coi baffi. Il bambino coi baffi ha i baffi e gli occhi di brace accesa e passa col carro da buoi sotto casa nostra nel cuore della notte. Se ti vede affacciato, ti tira sul suo carro che lui è compare con la morte. Meglio farsi trovare con porte e finestre sbarrate.
Mammà… oh, mammà… basta con queste storie di spirdi al bambino! Mora do scantu! Non lo vuoi accettare che siamo al 1965? Ancora con queste storie brutte?
Sorride la nonna. Sorride. Ma pure a me mi viene a prendere nel letto il bambino coi baffi, nonna? No, non arriva qui che ci sono io e lo caccio fuori. Dormi ora, Occhibelli.
Io dico che è solo un’influenza, no dottò? Tu che dici?
Non si può sapere. Sembra lo stesso. Tutto lo stesso di un’influenza fino a quando non si incazza e non ti passa ai polmoni.
Tanto muoiono solo i vecchi, no dottò?
Come se tu fossi giovane, ah ah. Di questo modo funziona. Prima gira un poco nei tessuti. Sale e scende.
Ppe cca e ppe dda.
Prima ti macina le ossa, prima ti cuoce le viscere a diarrea, prima ti causa la nausea e ti causa mal’e capu…
Prima.
Certe volte succede che sparisce dopo tre giorni.
Certe volte succede che sparisce dopo una settimana.
Certe volte succede che sparisce dopo quattordici giorni.
E tu sei carne salvata. La lotteria ha trovato la remissione. Tu sei nel 97% dei salvati.
Oppure no.
Oppure questo mi passa nei polmoni e mi ammazza e tu diventi nel 3% degli squagliati.
E diventi carne salata.
Come quel medico cinese bravo che l’ha scoperto…
Come quel medico bergamasco bravo…
Come si chiamano?
Come si chiamavano?
Dov’è il termometro?
37.5… 38.3… No, dai, non è una febbre eccessiva. Lui se ne resta nei tessuti giusti per quattordici giorni e te lo senti mordere nelle ossa, poi te lo senti rigare gli intestini.
Ma è come un’influenza… Come fai a distinguerlo?
Non ne fate tamponi, dottò?
Non ne facciamo perché non ce n’è abbastanza. Se proprio ti decidi che sei grave, non respiri e te ne vai al pronto soccorso, allora finalmente te lo fanno il tampone e si scopre se sei appestato e se sei “normomalato”.
Il “normomalato” ha solo un’influenza normale e se la tiene addosso felice questa carie delle ossa, questa carta vetrata nel colon, questa mazzata di ferro nei lobi frontali. Sei gioioso se la tua è un’influenza normale.
Ma perché non si può distinguere, vero dottò?
Perché no, fino a un certo punto sono uguali. Fino a quando non ti passa nei polmoni e ti ammazza.
E io, invece, lo distinguo dottò.
Io me lo sento che le cose stanno diverse questa volta.
Il piccolo nemico che mi passeggia dentro, io lo distinguo. Non è lo stesso male alle ossa, non è lo stesso male delle budella, non è lo stesso male agli occhi di quella o di quell’altra influenza
Il bambino coi baffi ha i baffi. Dopo, ha gli occhi di brace accesa e passa col carro da buoi sotto casa nostra nel cuore della notte. Ma… mi viene a prendere nel letto il bambino coi baffi, nonna?
No, non arriva qui che ci sono io e lo caccio fuori. Dormi ora, Occhibelli.
Dormi che oramai siamo a Catanzaro ed è già il 1965.

Foto. “Alcuni rimedi contro il virus” di Chiara Mastroianni ©