Memorie brevi del Monte Athos

Ritrovo e volentieri pubblico queste memorie brevi di un viaggio a piedi sull’Athos del 2005.

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“Christos Anesti!…” Bussano sempre i monaci verso le 4.30 del mattino. “Christos Anesti!” dicono. Cristo è risorto. Si dice tutti i giorni, un’infinità di volte al giorno, come un augurio, come un saluto, come un mantra nei quaranta giorni dopo Pasqua.

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Ma ora siamo alle porte dell’aurora e se non si risponde dal letto “…Alithos Anesti!” il monaco pazientemente ribusserà dietro la porta: “Christos Anesti!” E’ il segnale che precede la prima messa del giorno, quella che si accompagnerà all’alba, che canterà la prima luce cristallina di maggio sulla Penisola Calcidica. Il Monte Athos è un luogo di regole e la preghiera sta al primo posto. E’ la prima cosa da fare. E’ il primo modo con cui scandire il quotidiano. La prima di tutti i riti possibili in un mondo nel quale il tempo è stabilito dai ritmi stagionali e dalla luce della Prima Stella. La preghiera nel mondo bizantino è soprattutto canto. Si canta bene, armoniosamente, con il gusto del dettaglio, della variazione minimale su un canone che pare eterno, fissato nei secoli dai codici. Sull’Athos si canta allo stesso modo da oltre mille anni, senza stanchezza. Come può esserci stanchezza nella lode del Signore? Il leggendario Ayos Athanasios che nel X secolo fondò i monachesimo atonita arrivò a modificare la pianta delle chiese e le stesse scelte architettoniche dell’epoca in funzione del modo di cantare. Questo per permettere quel meraviglioso sospendersi nell’aria che è il canto bizantino, un modo di sfiorare il cielo, affacciarsi estatici alla rotazione delle sfere celesti e dei pianeti ma rimanendo uomini, esseri limitati di questo mondo, anime sazie per un attimo di armonia contemplativa.

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Solo guardando il mare, dagli spalti elevatissimi del Santo Monastero di Kariès, in un silenzio reso non meno assoluto dal soffio incostante della risacca ho avuto l’impressione effimera che fosse possibile spiegare, capire. Non dico tutto ma buona parte. Siamo anime esiliate. Vorremmo sapere sempre ben oltre quello che ci è dato sapere. Perché siamo esiliate dalla conoscenza assoluta e lo saremo per sempre, inguaribilmente. Non è nei codici musicali allora la risposta, qui li conservano con una cura totale, monacale (manco a dirlo!), con dedizione minuziosa. La sua ombra inafferrabile scorre nel brillare degli armonici di una voce che taglia lo spazio e l’incenso di fronte ad un’icona del Salvatore, che bacia con la devozione del pellegrino i piedi del Bimbo fra le braccia della Madonna della Tenerezza. Perché tenerezza e pietà, per se stessi, ce ne vuole parecchia per sceglire la vita del monaco. Forse fare una qualche rinuncia ad un mondo di polveri sottili, centri commerciali, profilattici colorati e patatine irradiate al cobalto non è poi così difficile. Il difficile è rinunciarvi per una regola, una modalità precisa di vita, una modalità precisa di canto in un mondo dove ci illudiamo di aver conseguito la libertà o, per lo meno, l’illusione di sapere bene di cosa si tratti. La libertà crediamo che sia anche non avere un’idea precisa di cosa essa sia. Demetrio Stratos cantava “Se tu guardi nel passato troverai tutto quanto stabilito e si chiama libertà”.

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Effettivamente questo mi è sembrato di intravedere nello scintillio argentino ed incessante del mare sotto la vigna, proprio questo. Il segno dell’eterna domanda se sia più libertà la regola o l’infrazione della regola, più la perfezione dell’onda o più la spuma che parte in mille direzioni quando l’onda si frange. Non sono io che posso dirlo. I monaci hanno tombe semplici, di pietra e di terra con una croce di legno. Accanto a una sepoltura c’era su un cartello una frase di San Giovanni: Come i fiori marciscono, come i sogni svaniscono così si dissolve la vita dell’uomo. E forse proprio a questo ho pensato sentendo cantare i monaci nella prima luce di un mattino di maggio. Che almeno il canto ci dia l’illusione di spezzare, rallentare, sospendere il ritmo del tempo. Quasi che vi sia una pietà possibile per i nostri cuori di uomini piccoli, soli di fronte al Destino.

 

Ettore Castagna – Karies – Maggio 2005

Foto di Ettore Castagna