Garcìa Lorca e un treno spagnolo

Durante gli anni dell’università mi colse grande e fulminante amore per la letteratura spagnola. Leggevo tutto e in lingua originale… Cervantes, Calderon de la Barca e poi i contemporanei… Leon Felipe, Rafael Alberti, Jaime Gil de Biedma, Miguel Hernandez che mi suscitò una passione struggente come certi suoi versi. Manco a dirlo, il posto più luminoso nel mio cuore letterario lo occupava Federico Garcìa Lorca. “Devo andare, prima o poi, in pellegrinaggio a Fuente Vaqueros… la voglio vedere la casa dove è nato… Andalusia… sì… l’Andalusia…”
Niente c’era più grande per me di Federico Garcia Lorca. Niente c’era di più grande che dire finemente i suoi versi nell’aria della sera, per gli amici e ad alta voce.
A vent’anni si ama tutto furibondamente.
Nel 1983 con due amici mi avventurai in treno da Catanzaro a Siviglia… Sono 3062 chilometri mi pare.
3062 chilometri su treni terribilmente sgangherati della RENFE, sui treni perfetti francesi, su quelli semplicemente sgangherati delle ferrovie italiane.
Fu un viaggio infinito, giornate intere in uno scompartimento, ore a boccheggiare per il caldo dopo Valencia. L’unica consolazione era l’acqua gelata dei più che romantici vagoni-bar spagnoli. Delle carrozze con normalissime sedie e tavolini con il rischio assoluto di arrozzularsi tutti a fine vagone alla prima frenata. O di cadere dal treno visto che il convoglio viaggiava a porte aperte per il caldo. Quello fu l’anno che assaggiai i cinquanta gradi all’ombra di Siviglia. Si sudava pure facendo la doccia.
Il nostro scompartimento era pieno di ragazzi depressi per la calura e, di fronte a me, accanto al finestrino, sedeva una venere andalusa ventenne, con una treccia nera degna di un verso gitano di Garcia Lorca. Parlavo solo io. Nemmeno il caldo tratteneva il mio entusiasmo per la letteratura spagnola.
Eccomi allora a parlare di letteratura spagnola agli spagnoli. I miei compagni italiani si annoiavano dell’ennesima dichiarazione di entusiasmo. Gli spagnoli mi guardavano un po’ incuriositi e un po’ ironici. Ma guarda un po’ questo strano italiano… Come era inevitabile, la dichiarazione d’amore verso Garcìa Lorca non potè mancare e lo dissi più volte: “Ci devo andare prima o poi a Fuente Vaqueros… In pellegrinaggio a casa sua… Così… un po’ per omaggio e un po’ per devozione…”
La venere andalusa non mi degnò di alcuna considerazione e guardava fuori dal finestrino. Persa nel giallo e nel secco del paesaggio arido. Non era arrogante, né sostenuta ma solo molto riservata. Questo pensai già allora.
A un certo punto arrivò un attimo di silenzio e lei si girò e mi guardò con una tranquillità disarmante. Mi acquietai. Fece come per dire “sto per parlare” e poi parlò.
“Io sono di Fuente Vaqueros… mio nonno… sì, mio nonno era compagno di banco di Federico Garcìa Lorca…” Poi, con un sorriso appena accennato, come per dire non voglio dire altro, non voglio disturbare oltre, riprese a guardare il paesaggio dal finestrino. La guardavo a bocca aperta ma lei dovette pensare che era per il caldo impressionante. Fino alla stazione di Siviglia non riuscii a dire più nulla. La semplicità della vita mi aveva fulminato.